29 novembre 2010

Seduti. La scuola deve continuare


Seduti. La lezione ancora non è finita. E fate entrare anche i vostri genitori, che ascoltino anche loro. Aprite il libro a pagina Costituzione e leggete cosa c’è scritto. Bene, ripetete con me, “l’ Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” e ancora “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Adesso andate a pagina Precariato e Disoccupazione:
L’anno scolastico 2010/2011 è appena iniziato e la riforma Gelmini, promettendo migliore qualità dell’insegnamento, ha intanto in programma il taglio di 135mila posti di lavoro, cioè 135mila insegnanti saranno licenziati nel giro di un anno. Questo cosa vuol dire? Avanti, tu lì in fondo, rispondi. Esatto, vuol dire che i due principi che abbiamo letto prima non vengono rispettati. Ma aspettate, non è tutto. Ci sono tante scuole come la vostra in cui non ci sono insegnanti. E allora che si fa? Bravissima. Si chiama un altro insegnante, il cosiddetto precario, quello che scende in piazza a protestare ogni anno perché per lui lavorare, oltre che un diritto, è vita, è soddisfazione. Quello che se viene licenziato o ha un punteggio troppo basso nella lista del provveditorato non lavora e allora fa lo sciopero della fame rimanendo nella zona d’ombra della società italiana, quella verso cui lo sguardo dei maggiori media e della politica rimane indifferente.
Passiamo a pagina Qualità dell’apprendimento e Continuità. Perché quelle facce perplesse? Cosa c’è che non va? Ah, il ministro Gelmini ha detto che tutto ciò che ha fatto finora è volto a migliorare la qualità della scuola e ad assicurare la continuità dell’insegnamento? Allora parliamo delle ore scolastiche tagliate alla storia, alla geografia, alla storia dell’arte, alla letteratura italiana e alle lingue straniere. Parliamo, ad esempio, delle 3 ore di matematica durante l’ultimo anno di liceo scientifico e del fatto che i professori devono correre per finire il programma e lasciarsi così alle spalle le vittime degli integrali e delle derivate.
Intanto le cattedre sono vuote e solo 16mila insegnanti sono entrati di ruolo quest’anno. Questo cosa vuol dire? Lo chiedo a voi.
 
Ilaria Pantusa
 
(Articolo pubblicato su Il Nuovo Cittadino n°3 novembre/dicembre)

26 novembre 2010

Fraintesa


Fraintendimento. Bella parola vero?
Pensate, nella mia vita son stata fraintesa 10.598,9 volte.
Come faccio a saperlo?
Basta mescolare un po’ di ricordi dimenticati insieme a facce che non si vedono più. Poi son da aggiungere quelle poche volte in cui il volume della propria rabbia è aumentato e qualcosa come il senso di colpa. Un pizzico di coda di paglia ed il fraintendimento è pronto. Basta poi pesarlo sulla bilancia della propria coscienza ed è così che saprete quante volte siete stati fraintesi.
Qualcuno potrebbe obiettare su cosa c’entrino il senso di colpa e la coda di paglia.
Il loro zampino c’è sempre. Sempre.
Fin da quando ero piccola, anche se la colpa era degli altri, l’unica che si castigava ero io. E allora nel fraintendimento il senso di colpa gioca un ruolo fondamentale, perché è sempre un po’ colpa di se stessi se gli altri non capiscono cosa diciamo. A volte parliamo a voce troppo bassa, talmente bassa che anche un sussurro è più limpido. Altre volte invece urliamo, e le nostre grida si confondono con il rombo di una moto che a cinquanta chilometri da noi sta correndo per andare chissà dove.
Conseguenza immediata del senso di colpa è la coda di paglia. Eh sì, perché una colpa sicuramente ce l’ho. E’ ovvio, è logico, è certo, è chiaro, è matematico, è scientifico, è provato, è testato, è risaputo.
E’ falso.
Il motivo per cui crediamo di meritare la decapitazione è l’unico che non ce la fa ottenere.
E allora altre congetture, altri ricordi da tirare fuori, ma quelli non vengono a galla. No, proprio non capiamo dove sia quella mano di colore che non andava bene, l’increspatura del foglio di carta sul quale si stava scrivendo la lista della spesa.
Capita di essere stati fraintesi, di sentirsi con le spalle al muro come chi è stato condannato alla pena capitale ed invece è innocente, ma lo si scoprirà solo dopo che la sua cenere volerà nel cielo.
Sono stata fraintesa 10.598,9 volte. Neanche so perché.
                                            

24 novembre 2010

L'intelligenza che protegge dai tranelli



 
Boccaccio è affascinato dalla prontezza dell’ingegno umano e spesso, nella letteratura sia antica che moderna, simbolo di questo ingegno sono gli ebrei.
Infatti, il popolo ebraico, vittima dalla notte dei tempi delle più nefaste persecuzioni, vittima dell’antisemitismo, è visto spesso come il nemico, colui da cui diffidare, ma è anche colui che grazie alla sua saggezza riesce a cavarsela nelle situazioni più ardue.
La letteratura medievale presenta ben due esempi, con una vicenda fra l’altro molto simile. Uno proviene dal Novellino (il cui autore è sconosciuto), mentre l’altro dal Decameron.
In entrambi sono protagonisti un sultano e un giudeo, e in entrambi il sultano ha bisogno di denaro per alcuni problemi che lo affliggono, mentre il giudeo è colui che deve prestargli la moneta. Ora, sia il sultano di Boccaccio che quello del Novellino vogliono porre una trappola all'ebreo, e il prescelto, in entrambi i casi, riesce a non cadere nel tranello grazie alla sua intelligenza.
La novella di Boccaccio è ricca di particolari, sia nella trama che nella caratterizzazione dei personaggi. Infatti, Saladino il sultano è un uomo di prestigio, il quale ha speso molto per le battaglie che ha vinto e per i lussi in cui si è rifugiato. È inoltre un uomo avaro, ed è questa la ragione del tranello nei confronti di Melchisedech.
 
 
Melchisedech il giudeo è invece un usuraio di Alessandria, è ricco ed è anche “savio uomo” e grazie a questa sua dote si accorge da subito della beffa.
Il racconto contenuto nel Novellino non dà un volto ai personaggi, ma ne accenna solo le intenzioni. È tramite la conversazione che si evince l’esito positivo della vicenda.
Infatti, non c’è alcuna anticipazione riguardo le doti intellettive del giudeo, ma queste vengono fuori solo grazie a ciò che dice, alla narrazione grazie alla quale si sbriglia dal tranello.
Con la descrizione che Boccaccio fa del suo giudeo, invece, il lettore è già consapevole delle ingegnose capacità dell’uomo e quando le vede messe in azione nel racconto che egli riferisce al sultano, chi legge non se ne sorprende più di tanto. È vero che lo spazio per la narrazione è limitato, ma quel poco che le viene dedicato è fondamentale, perché aiuta il lettore a comprendere in cosa consta l’ingegnosità dell'usuraio ebreo.
E così, la semplicità del racconto contenuto nel Novellino dà l’impressione che l’intelligenza, la genialità, siano doti naturali nell’uomo, soprattutto in coloro che hanno sempre corso enormi rischi nella loro vita e si trovano di fronte ad un altro rischio, forse più grave, forse meno arduo, comunque pronti, comunque vigili.
La struttura ben più complessa della novella di Boccaccio esprime invece il fatto che dietro ogni azione che l’uomo compie c’è sempre un ragionamento, un antefatto che ha preparato l’uomo in questione alle dure prove della vita. Il giudeo, anche se capisce immediatamente che c’è il tranello, non lo dà a vedere. Prima c’è la pausa della narrazione durante la quale Boccaccio descrive i pensieri di Melchisedech, pausa che quasi rappresenta il secondo prima di iniziare a parlare, quando con un respiro si raccolgono le idee ed i pensieri e, parola dopo parola, ci si guadagna la stima, l’approvazione dell’interlocutore.
È in questi sottili particolari che l’amore di Boccaccio nei confronti dell’ingegno umano si palesa.
 
Ilaria Pantusa

23 novembre 2010

Il concerto



 
Avete presente quella canzone che non dimenticherete mai? Quella che aleggerà per sempre nel vostro animo perché con i suoi saliscendi di note ha regolato il battito del vostro cuore? “Il concerto” fa questo effetto. Musica, colori e folclorismo vi si intrecciano creando una sinfonia perfetta, che inizia lentamente, quasi in punta di piedi, come il suo protagonista, Andrei Filipov, l’ex direttore d’orchestra del teatro Bolchoi di Mosca, che trenta anni prima si è dovuto reinventare uomo delle pulizie del teatro stesso per non aver obbedito al partito Comunista, che gli aveva ordinato di licenziare dall’ orchestra i musicisti ebrei. E mentre la melodia interiore del film cresce, il destino sorride ad Andrei. Da una Mosca sporca, arretrata e post-sovietica, il direttore e la sua ricomposta e chiassosa orchestra si ritrovano a Parigi come ospiti d’onore del teatro Chatelet. Qui Andrei non ritroverà solo Tchaikovski, il suo passato e le sue nevrosi, ma si ricongiungerà con l’“armonia perfetta e assoluta della musica”, quella stessa musica che sul finire cresce impetuosamente, riempie il cuore, colma gli occhi di lacrime e lascia senza fiato. “Il concerto” di Radu Mihaileanu è un esempio magistrale di Settima Arte, gli interpreti interagiscono con naturalezza e riescono a lasciare il segno, facendosi inseguire con divertita passione nelle loro vicende, mentre un mondo, quello della Russia post-sovietica, si mostra in maniera quasi tragicomica, immerso nei suoi mille splendidi volti. “Il concerto” è il film che tutti coloro che hanno voglia di meravigliarsi dovrebbero vedere.
 
Questa recensione è stata selezionata per il concorso di critica cinematografica indetto dal sito Mymovies nel 2010
 
Ilaria Pantusa

21 novembre 2010

il Faber dei reietti della vita



I testi di Fabrizio De André hanno sempre avuto la capacità di far riflettere. Con la profondità poetica che lo ha sempre caratterizzato ha scavato nell’animo umano in maniera non sempre indolore. Infatti è stato spesso criticato dai “benpensanti”. Uno dei brani più discussi di De André è sicuramente “Bocca di rosa”, contenuto in “Volume 1” del 1967. In questa canzone si narra la storia di una donna passionale e libertina amata e rispettata dagli uomini del paese e naturalmente invidiata dalle donne “cornute” che la considerano una prostituta. La narrazione è corale, il punto di vista si alterna tra quello delle donne gelose e quello degli uomini salutati dall’amore della donna. Quest’ultima è vista da De André con simpatia e delicatezza.
 
 
 
Infatti Faber ha sempre voluto mettersi dalla parte degli scarti di una società benpensante ed incoerente. Fa lo stesso 30 anni dopo, quando nel 1996 esce “Anime salve”, ultima raccolta di inediti. Apre l’album “Princesa”, una canzone che racconta la storia di un transessuale, Fernando, a partire dalla sua infanzia. A Fernando il suo corpo è sempre andato stretto e la soluzione più adatta per stare bene con la sua vera essenza è l’intervento chirurgico. Fernando morirà in grembo a Fernanda e per lei inizierà una nuova vita, prima in mezzo ad una strada “palcoscenico della sua vita”, poi accanto all’amore trovato in un “avvocato di Milano”. È ancora la poesia a trionfare, è ancora la riflessione a guidare l’ascolto, è Fabrizio De André che non ha mai smesso di cantare i reietti della vita.
 
Maggio 2010

20 novembre 2010

La banda degli onesti



Recensione film ‘’La banda degli onesti’’
Anno: 1956
Cast: Totò, Peppino de Filippo, Giacomo Furia, Gabriele Tinti
Regia: Camillo Mastrocinque
 
 
“La banda degli onesti” è una passeggiata nella Roma in bianco e nero degli anni ’50 con Totò, Peppino e le loro malefatte. Uno portiere di un grande condominio romano, l’altro tipografo della zona, entrambi onesti. Ma il caso, gli eventi vogliono che i due siano tentati da quelle mitiche diecimila lire, che riprodurranno insieme ad un amico imbianchino. E tra un fraintendimento e l’altro, l’epilogo di questa storia sorprenderà gli stessi protagonisti, che non potranno fare a meno di regalare risate fino all’ultimo istante.
Splendidi i cambiamenti d’espressione di Totò, la sua camminata zoppicante, il suo collo che allungandosi e accorciandosi diventa espressione di ciò che avviene nel suo animo, i suoi inimitabili giochi di parole. E quando Totò dice: “Ah sì, sì, ne ho sentito parlare di questi biglietti da diecimila in circolazione!”, si ha la sensazione che il tempo rimanga sempre fermo e che se una volta erano diecimila lire, ora sono 500€ e l’unica differenza è che Totò non è più qui a farci ridere delle nostre disgrazie.

 
Ilaria Pantusa
 
Pubblicato su "Icaro", n°4 ottobre/novembre 2010

12 novembre 2010

Le tre vedove


Ecco un altro "esercizio di stile", improvvisato quasi due anni fa durante il famoso corso di scrittura creativa. Questa volta dovevo "animare un quadro": Les Alyscamps del grandissimo Gauguin. Buona lettura e buona visione, è il caso di dirlo.

http://www.fabulousmasterpieces.co.uk/USERIMAGES/Les_Alyscamps.jpg

Tre donne, tutte e tre sorelle, tutte e tre vedove, passeggiavano lungo un piccolo e limpido fiumiciattolo, adagiato su di un lieve pendio di collina.
Le tre, Charlotte, Annette e Roxette parlavano dei bei tempi in cui si divertivano coi loro bei mariti all'ombra degli alberi alle loro spalle.
"Ricordate quando Jacque, per farci ridere, si è andato a buttare proprio qui, in queste acque e ci stava per affogare?" disse Charlotte e le altre risposero all'unisono con risate squillanti.
"Che bei fiori che gli hai portato Roxette!" Affermò Annette. "Il fioraio me li ha fatti pagare la metà. A mio parere ha delle mire". E le altre scandalizzate cominciarono a farfugliare che no, lei è una donna in lutto, la dignità, il rispetto verso Pierrot, Pierrot che era così gentile, Pierrot che era così simpatico, "Pierrot l'ho tradito una volta da quando se n'è andato", disse Roxette, "Pierrot mi manca tanto", disse Roxette, le altre in silenzio, a rintanarsi nel ricordo dei loro mariti, per non ascoltare la sorella indegna, che già volgeva lo sguardo agli alberi verdi che sapevano di primavera.
 
(30/03/09)
 
Ilaria Pantusa




05 novembre 2010

Potenzialità



Questa mattina sono arrivata ad una conclusione. Conclusione che è l’inizio di un viaggio in questo mondo desolato e malaticcio, un mondo in cui viviamo e in cui ci stiamo arrendendo in nome di un dio denaro dagli occhi iniettati di sangue e oro nero.
Ieri sera ho finito di leggere un libro di Jonathan Coe, “Circolo chiuso”, il seguito de “La banda dei brocchi”. In quest’ultimo si narrano storie che hanno come decisivo sfondo i fatti dell’Inghilterra degli anni ’70 e il suo seguito ha ancora come decisivo sfondo i fatti dell’Inghilterra dei giorni nostri. E quel ritratto era uguale ad un altro che ho visto io. Inizialmente non ricordavo dove, ma poi a poco a poco l’immagine si faceva più nitida, e allora mi tornavano in mente le pagine dei libri di storia, la storia di un’Italia remota non troppo distante da questa, e ancora gli articoli e le immagini dei telegiornali e le parole della gente sulla metro, i discorsi di verdi, leghisti, destra e sinistra, razzisti, omofobi, ignoranti. In questi due libri ho letto la decadenza che sta attraversando il mio paese natio, e mi hanno risvegliata dalla torbida illusione che solo qui ci fosse un buco nero incolmabile. Forse ho capito che quel buco nero sta attraversando l’intero mondo occidentale e ha un’origine, “perché quando vai al sodo, ogni cosa ha una causa”. Stavo pensando di affibbiare la colpa all’America e al Capitalismo, e forse sembrerà ovvio, forse sembrerà quasi scontato, oppure troppo semplicistico, ma credo che sia proprio così.
L’Italia sta perdendo la sua identità e da quanto ho potuto leggere, quell’identità sta sbiadendo anche in Inghilterra. Quando parlo di identità non mi riferisco a quella nazionale, ma intendo dire che stiamo vivendo in un periodo di decadenza culturale tale che ormai intellettuali, scrittori, artisti sono relegati ai piani impolverati della società, non sono più i “fari del popolo” (e questo è un processo che si trascina ormai da più di un secolo, lo so bene). Ma non è solo l’esigua importanza che si dà ad artisti ed intellettuali, il problema è che si è instaurata da ormai molto tempo un altro tipo di cultura, quella dello spettacolo, degli indici di ascolto, del vuoto. Da cosa proviene questo vuoto, chi ce l’ha trasmesso? Possibile che questo virus sia “autoctono” e si sia diffuso ovunque alla velocità della luce? In cosa possono essere ritrovate le cause? So di non essere una sociologa, ma mi rendo anche conto del fatto che ci sono troppe cose che non quadrano e che non siamo i soli a vivere questa realtà, e prima ce ne renderemo conto, prima qualcosa cambierà, forse. Non possiamo pensare di badare solo al nostro piccolo orticello quando tutto il mondo sta annegando insieme a noi, siamo nell’era della globalizzazione, ma ciò non deve necessariamente significare che siamo in un’era negativa e dunque dobbiamo accettarla per come è. Potremmo sfruttare questo rimpicciolimento del mondo, questo avvicinamento degli spazi, questa velocità nella comunicazione per unire le forze e abbattere questo muro di silenzio, di vuoto, di ignoranza e di fame di denaro. Ormai sono dell’idea che il capitalismo sia la rovina di questo mondo (e non parlo da comunista, dato che non lo sono, è una semplice constatazione oggettiva ed obiettiva), e sono dell’idea che gran parte di questa decadenza derivi da esso.
So che la decadenza culturale non è l’unico problema che stiamo attraversando, ma sono convinta del fatto che la precarietà del lavoro, la mancanza di onestà e la paura dell’Altro derivino da un’ignoranza di fondo, da una superficialità fin troppo tangibile. È questo che deve cambiare. Diamine, abbiamo un cervello, usiamolo! Come possiamo crederci esseri dotati di Ragione se non facciamo assolutamente nulla per far funzionare le cose in nome della collettività? È questo che deve cambiare, dobbiamo renderci conto delle nostre potenzialità perché fino ad ora non abbiamo fatto altro che distruggere. Noi possiamo ricostruire, ma dobbiamo abbattere quel muro di instabilità, ignoranza e vuoto.