15 novembre 2009

Eroi nel vuoto



Una canzone diceva che essere “Superman non è facile”. Anche il Supereroe di tutti i supereroi aveva un punto debole, ma sapeva volare, era forte, salvava la sua donna ogni volta che lei si trovava in pericolo ed il suo intento era quello di mettere in salvo il mondo combattendo crudeli uomini pronti ad impadronirsene e a trasformarlo in polvere. Certo, secondo l’immagine che gli americani avevano di loro stessi nella prima metà del ‘900, credere in una figura del genere era possibile, d’altronde l’America era potente, ricca e patria di Libertà e Felicità.
Non era così nella vecchia e stanca Europa, le cui ferite prodotte da centinaia di anni di guerre non si erano rimarginate del tutto, ed anzi vibravano di infezioni e sangue cattivo. E la cultura del vecchio continente ne risentiva. Prime vittime i poeti. Baudelaire perde per le strade di Parigi la sua aureola e va a bere in un bordello, il caos cittadino urla fra i suoi versi ed il poeta si sente un escluso, ma anche un eletto, l’unico in grado di leggere la realtà, il tempio della natura, l’unico che può sentire le sinestesie della vita, come scriveva in “Corrispondenze”. In qualche modo il poeta baudelairiano, il poeta simbolista è ancora un eroe. O almeno lo è finché il progresso del Novecento non investe borghesi e non con i suoi clacson, con il peso dei macchinari metallici dell’industria, con le sue rotaie e a volte con i suoi tram.
Un’atmosfera di generale sovreccitazione che non eccita l’ambiente culturale, tranne D’Annunzio, che dell’artista fa una sorta di divo, di superuomo, essendo capace a soli sedici anni di pubblicizzare la sua prima opera di poesie fingendosi morto, e poi smentendo la notizia che saltava di quotidiano in quotidiano.
Ed il resto degli uomini di penna e delle loro creature di carta?
Ed ecco che l’eroe comincia a dissolversi.
Il protagonista del romanzo del primo Novecento è un eroe/antieroe, un insoddisfatto, perché incapace di agire e reagire. In “La senilità” di Svevo, Emilio si ritrova “nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore […], nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza”. E’ proprio questo sospettare, questo aver paura della paura che fa di lui un inetto. E il tema dell’insicurezza, del dubbio ricorre anche in un altro romanzo di Svevo, “La coscienza di Zeno”, nel quale anche una sigaretta diventa motivo di ossessione, diventa causa della sua incapacità. Incapacità di smettere di fumare, incapacità di scegliere definitivamente fra una facoltà universitaria e l’altra, incapacità di decidere per una donna o per un’altra. Egli vive fra continue ipotesi e continui dubbi, cammina su di un filo su cui non incontra mai il nodo duro della “decisa convinzione”, è un uomo che alla domanda “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?” (presa in prestito dai versi di “Verranno a chiederti del nostro amore” di De Andrè), si crogiolerebbe nella ricerca di una risposta, invece nascosta nelle vicende della sua esistenza.
E se i protagonisti dei romanzi di Svevo vagano nel dubbio e nell’insicurezza, il Mattia Pascal, che fu anche Adriano Meis, di Pirandello, finge di essere morto per liberarsi di una famiglia troppo ingombrante, diventa ombra e scopre che chi è davvero libero è la sua vecchia famiglia, liberatasi da lui. L’illusione di essere rinato dopo la falsa morte non lo pervade del tutto, perché la realtà è più grande, più forte, più sapiente, o solo più pragmatica, ma talmente potente da rendere inutili tutte le sue azioni, compiute con l’ingenuo intento di “vivere”, e non di sopravvivere soltanto. Si ritrova ucciso, ucciso davvero dalla libertà da sempre bramata, eroina per altri, ma non per lui.
Con Pirandello e Svevo si parla ancora di eroi in carne ed ossa. In questi casi la “sostanza si vendica sulla Poesia”, e dopo essersi nutrita di essa, cosa diventa? Potrebbe diventare fumo quell’eroe “forestiere della vita” o schiavo delle sigarette. Potrebbe anche diventare cosciente di esser fatto della stessa sostanza dell’inettitudine, e non dei sogni come diceva Shakespeare.
L’uomo di fumo che Palazzeschi racconta ne “Il codice di Perelà” finalmente capisce che è un mediocre, un uomo che vaga come le ombre nei quadri di Munch, annunciatrici di incertezza ed angoscia, a cui la vita dell’adolescente rappresentata in “Pubertà” è legata impercettibilmente ed inevitabilmente.
Il dissolversi dell’eroe arriva ad un punto di non ritorno con “Il cavaliere inesistente” raccontato da Calvino. Una voce che proviene “da dentro un elmo chiuso, come fosse non una gola, ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare”, una voce che parla e che dice “io sono”, ma che dietro a tutti quei nomi che grida in modo metallico, nasconde l’inconsistenza di un essere inesistente.
Quasi metafora di tutto quel vuoto vestito di seta, vestito di modernità, vestito di quel progresso ed illuminato da luci sgargianti, quel vuoto che ci spaventa con lo sguardo allucinato dell’ “Idolo moderno” di Boccioni, quel vuoto che si sente dopo sferzate di nichilismo.
L’eroe che si dissolve non è solo l’immagine di un inizio Novecento spaventato e bendato, quasi paralizzato nelle sue fasciature, ma è l’immagine di un intero secolo, l’emblema dell’epoca in cui fotografi ricattatori vengono considerati idoli da orde di adolescenti e “il partito dell’uomo qualunque” è quello più forte.
Le ceneri di quegli eroi vagano nell’aria, incidono nel vuoto sfumature più profonde che gli danno un senso, ed insegnano raccontando dubbi ed incertezze che neanche Superman è in grado di vincere.

Nessun commento:

Posta un commento

Segui il blog, lascia un commento!