31 ottobre 2014

"Canzone delle osterie di fuori porta" ovvero la disillusione

Per me Canzone delle osterie di fuori porta di Francesco Guccini è la canzone della disillusione, della presa di coscienza di una sconfitta. La voce stessa del cantautore sembra svogliata, inespressiva, indifferente. Nella mia mente ho un'immagine di lui mentre la incide: lo sguardo annoiato, le spalle curve, la sua figura al centro di uno studio di registrazione polveroso, immersa nella semioscurità. Non so se questa immagine possa anche solo lontanamente corrispondere alla realtà, ma Guccini stesso affermò che il periodo in cui registrò l'album che la contiene fu psicologicamente pesante.

Io però lo ringrazio per questa canzone.
Ricordo che la prima volta che l'ho ascoltata era sera tardi e stavo sentendo la radio. La voce vellutata dello speaker, annunciandola, aveva detto: "Ora vi lascio con un lungo brano di Guccini", e io istintivamente avevo pensato "oh no!", ma poi mi è bastato ascoltare le prime note per lasciarmi coinvolgere. Da allora non c'è stata una volta in cui non le abbia dedicato tutta la mia attenzione, che è stata ripagata, sempre.

Sì, perché grazie a questo brano ho ricordato una cosa di cui da adolescente ero molto più consapevole e di fronte a cui ero molto più vigile di quanto lo sia ora: la disillusione si insinua in modo sotterraneo nello spirito e lo mina, intaccando la reattività e la capacità di sognare, nonché la voglia di costruire e costruirsi, che spesso necessita della spinta propulsiva data dalla dolcezza dell'illusione.
Non accosto a caso la parola "dolcezza" alla parola "illusione": per me anche ciò che illude è reale, almeno finché ci credo. Posso farcela, se lo credo tale. Nulla è già certo e reale e solido, perché ogni cosa è in divenire, e se ho la forza di vedere la vita in questa maniera, allora tutto è ancora e sempre possibile.

Ecco, la disillusione pone e impone un velo davanti agli occhi che impedisce loro di percepire la luminosità di un sogno, di una possibilità, e così accade che "si alza sempre lenta come un tempo l'alba magica in collina, ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima".

Canzone delle osterie di fuori porta dice tante altre cose, riferendosi anche alla storia di quegli anni: "Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte, son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte" e per me è impossibile non pensare alla strage di piazza Fontana (12-12-1969), per molti, me compresa, un evento determinante della storia della prima repubblica italiana.
Il decennio successivo, quello nel quale Guccini scrive questi versi (1972-'74), è noto con l'appellativo di "anni di piombo" e la disillusione portata da quella bomba nel cuore di Milano aveva in effetti spezzato un incantesimo, risvegliato dal sogno dell'azione collettiva (la primavera sessantottina, l'autunno caldo, l'unione tra movimenti studenteschi e operai).

Una canzone apparentemente priva di spiragli di luce è in realtà essa stessa luce, o almeno, lo è per me. Mi ha come rimessa in guardia dallo strisciare subdolo e silenzioso della disillusione. Apro gli occhi e resto vigile, ma dentro me non smetto di sognare.



Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, 
ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta: 
qualcuno è andato per età, qualcuno perchè già dottore 
e insegue una maturità, si è sposato, fa carriera ed è una morte un po' peggiore... 

Cadon come foglie o gli ubriachi sulle strade che hanno scelto, 
delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto, 
non so se scusano il passato per giovinezza o per errore, 
non so se ancora desto in loro, se m' incontrano per forza, la curiosità o il timore... 

Io ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino, 
le carte poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino, 
ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta, 
non ho utopie da realizzare: stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta... 

Si alza sempre lenta come un tempo l'alba magica in collina, 
ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima. 
Ladri e profeti di futuro mi hanno portato via parecchio, 
il giorno è sempre un po' più oscuro, sarà forse perchè è storia, sarà forse perchè invecchio... 

Ma le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte, 
son caduti i fiori e hanno lasciato solo simboli di morte. 
Dimmi se son da lapidare se mi nascondo sempre più, 
ma ognuno ha la sua pietra pronta e la prima, non negare, me la tireresti tu... 

Sono più famoso che in quel tempo quando tu mi conoscevi, 
non più amici, ho un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi 
e forse ridono di me, ma in fondo ho la coscienza pura, 
non rider tu se dico questo, ride chi ha nel cuore l'odio e nella mente la paura... 

Ma non devi credere che questo abbia cambiato la mia vita, 
è una cosa piccola di ieri che domani è già finita. 
Son sempre qui a vivermi addosso, ho dai miei giorni quanto basta, 
ho dalla gloria quel che posso, cioè qualcosa che andrà presto, quasi come i soldi in tasca... 

Non lo crederesti ho quasi chiuso tutti gli usci all'avventura, 
non perchè metterò la testa a posto, ma per noia o per paura. 
Non passo notti disperate su quel che ho fatto o quel che ho avuto: 
le cose andate sono andate ed ho per unico rimorso le occasioni che ho perduto... 

Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, 
ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta: 
qualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragione, 
chi perchè stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi ed è una morte un po' peggiore...