È di questi giorni una notizia
sconcertante: in Italia ci sono 10 milioni di persone in condizione di povertà
relativa (= difficoltà nella fruizione di beni e servizi rispetto al livello
economico medio di vita della nazione) e più di 6 milioni di persone in
condizione di povertà assoluta (= l’incapacità di acquisire i beni e i servizi
necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di
appartenenza).
I dati che vi ho riportato sono quelli
dell’Istat e l’articolo sulla Stampa da cui li ho presi cita questi gelidi e
insignificanti numeri. Quello che voglio fare io invece è scorgere lo spettro
di realtà che dei numeri simili contengono in essi, ed è per questo che la
memoria storica è un tesoro inestimabile per il presente, perché infatti mi
viene in aiuto.
Il Divo, di Paolo Sorrentino, Andreotti e i suoi vecchi elettori |
E allora voglio tornare indietro negli
anni del cosiddetto “miracolo economico”, più precisamente al tempo e ai modi
in cui la Democrazia Cristiana guadagnava consensi e quindi gestiva il potere,
mostrando perché questo ha a che fare con i dati Istat sulla povertà in Italia.
La Democrazia Cristiana tra gli anni ’50
e ’60 si costruisce una forte base elettorale, sia a Nord che a Sud. Queste due
zone d’Italia erano molto diverse fra loro: al Nord l’associazionismo cattolico
attirava le famiglie in una fitta rete di attività e organizzazioni, mentre al
Sud l’associazionismo era debole, ma il clientelismo statale coinvolgeva maggiormente
le famiglie. Ciò non esclude che anche al Nord esistesse il clientelismo. Ma la
Dc, puntando a rafforzare la propria base di massa, vira sull’associazionismo al
Nord e sull’uso clientelare delle risorse pubbliche al Sud.
Ai fini del discorso, è interessante
occuparsi del Sud e di come era costruito il sistema clientelare della Dc.
Innanzitutto esisteva un collegamento tra chi dispensava favori e protezione e
chi li richiedeva.
La gente comune, all’ultimo gradino
della gerarchia, diventava cliente del partito avendo ottenuto da esso forme di
aiuto o anche solo promesse.
E questo in quali situazioni poteva
accadere, se non proprio in quelle di povertà e miseria? Paul Ginsborg, nel suo
fondamentale “Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi”, scrive: “Dove le famiglie erano numerose e
disoccupazione e miseria endemiche, come a Catania, Palermo e Napoli, la
possibilità che anche un sol membro della famiglia avesse accesso ai ranghi più
bassi della scala clientelare aveva un’enorme importanza. Un lavoro in comune o
in un’azienda locale era un premio inestimabile, perché assicurava un salario
fisso e una pensione”.
Il Divo, di Paolo Sorrentino, Andreotti e i suoi vecchi elettori |
Si parla insomma di un’epoca fortemente
precaria e di un sistema corrotto e clientelare, di uno Stato assente ma
colluso. È un’epoca lontana dalla nostra solo in termini di anni, ma non di
costumi e di modalità di gestione dello Stato.
La mia generazione e quelle di poco
precedenti la mia vivono in una condizione di forte precarietà. Loro (i
dirigenti, i politici, ecc.) la chiamano flessibilità, io la chiamo scusa per costringerci a nuove forme di
sfruttamento. La povertà non solo è dietro l’angolo, ma per milioni di
italiani, come si è visto, è una realtà. E da una situazione simile cosa ci si
può aspettare?
Il passato lo abbiamo visto. La storia
appare lineare, e forse lo è, ma da quando siamo consapevoli della relatività delle
cose, occorre prestarle attenzione, imparare da essa per non precipitare nell’oblio
della sua circolarità.