30 marzo 2012

Un mondo decadente.

In contemplazione di un piccione in decomposizione a stazione Ostiense. Il mondo dà poesie non richieste di prima mattina. Mi chiedo se questa visione avrebbe affascinato o disgustato il caro Charles Baudelaire. Chissà se tra la merda secca di piccione l'avrebbe raccolta lo stesso l'aureola.
E alla gente sta bene così!
Ok, andiamo in farmacia, ci sarà un rimedio? Per l’allergia di sicuro, per la decadenza non lo so.
E poi si arriva a quasi 22 anni, ci si rende conto che quella strana adolescente superbia del sentirsi speciali sparisce e… è perché ho visto quel mezzo piccione rinsecchito? È perché è questo che vuol dire passare all’età adulta? Capire quali sono i miei limiti, accettarli, parlarne un po’ tra me e me e poi fare come se niente fosse, come se questo non mi toccasse, come se fosse giusto così? Da bimba mi sentivo speciale perché passavo le ore a cantare e a scrivere filastrocche e racconti di asini parlanti e tutti mi dicevano che ero dolcissima e sensibile, a 12 anni avevo gli occhiali ma non avevo nessuno da guardare dentro, a 15 anni ascoltavo i Cure a manetta e scrivevo decine di poesie ogni giorno, e anche se non andavo bene in matematica mi piacevo lo stesso. Adesso BOH. Adesso so, perché prendo la metropolitana ogni giorno, perché ho visto qualche angolo d’Europa, perché ho visto un piccione in decomposizione su cui probabilmente solo il mio sguardo e quello del mio fumettaro si è posato, perché leggo i giornali e leggo un sacco di libri e studio e scrivo e penso e non dormo, che le persone sono troppe e che cercano di salvarsi e di nuotare ancora nell’illusione di non essere solo un numero, di non essere troppo piccole in confronto al Mondo, di non essere alla stregua di un piccione morto a stazione Ostiense. Adesso so che noi siamo come quel piccione. Che faccio? Ne discuto ancora tra me e me? Lo accetto e vado avanti? Che me ne faccio di questa consapevolezza?
E quindi vado a cucinare.
Forse.


26 marzo 2012

I tanti volti di un affascinante, terribile mistero


Questo saggio breve l'ho posto in apertura della mia tesina di maturità. L'argomento, è intuibile, è la follia. Era il lontano 2009...


“Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
<<follia>> […]”.
(Aldo Palazzeschi, Chi sono?, da L’incendiario, 1909)

In un mondo in cui ancora non esistevano antidepressivi o medicinali per curare la schizofrenia, i pazzi venivano internati in manicomi e costretti in camicie di forza, che fermavano il loro corpo, ma non la loro mente, che vagava, viaggiava, in terrorizzanti abissi o in estasianti e brillanti cieli.
In un mondo ancora immune dal progresso della farmacologia, i pazzi erano anche degli artisti, oppure venivano raccontati da geniali creativi, forse un po’ folli anche loro.
La follia ha sempre camminato accanto all’uomo, compagna della morte come della vita, dell’amore come dell’odio, ed è sempre stata lì, immersa in quel limite invalicabile dell’io, ad attenderlo, per mostrargli l’altro lato del mondo, forse quello oscuro, forse quello più candido.
Questo strano modo di vedere il tempo, i sentimenti, questo strano modo di immergersi nella natura come nel cemento, ha portato illustri uomini di scienza, illustri uomini dal genio creativo, illustri uomini del potere dittatoriale a considerare la realtà, o l’irrealtà, nelle sue molteplici sfaccettature.
Le maschere della genialità di Pirandello si illuminano della vita, alla quale si arriva tramite un’umoristica follia, la quale libera le loro esistenze dalla forma. Così c’è chi viaggia insieme al fischio dei treni e arriva fino in Siberia, c’è chi si libera del proprio ingombrante ruolo di punto di riferimento, dedicandosi a quella pazza tentazione di uscire per qualche istante da se stesso, scindendo la propria persona in due.
C’è anche chi con un soffio spegne la vita di coloro che ha intorno e anche la propria, e si libra nell’aria, sinonimo di vitalità. Infine c’è chi afferma di esser stato matto, mostrando umoristicamente come egli non solo non è savio, ma anche che il mondo in cui vive è completamente alterato, straniante, come accade in molte delle opere di Pirandello.
Ma la follia non è solo un mezzo per sopportare la realtà, essa si fa anche viva nell’espressione delle arti figurative.
Vincent Van Gogh soffre durante la propria vita e ciò è visibile sia nella corrispondenza epistolare col fratello, sia nelle opere da lui dipinte. Le tinte forti caratterizzano la sua arte, la follia subentra fra i suoi colori ed è così che nasce il Campo di grano con volo di corvi, opera simbolo dei suoi tormenti, in cui i neri corvi volano come un presagio di morte nel cielo plumbeo agitato dal vento, vento che smuove anche quel campo di grano nel quale si aprono sentieri che non portano da nessuna parte, la stessa direzione che qualche mese dopo prenderà l’artista.
E se il pittore olandese muore logorato nei nervi, Virginia Woolf si toglie la vita per il timore di poter impazzire. Ma prima di farlo, vent’anni prima, scrive Mrs. Dalloway, in cui racconta di una realtà che è divisa fra la sanità e la follia, follia rappresentata dal secondo protagonista del romanzo, Septimus, che simbolicamente non ha nessuna connessione con la signora Dalloway, e dunque con la vita, se non uno psichiatra, e la grande forza della vita e della morte che si presenta in una sola giornata nella Londra degli anni ’20.
E la follia torna ad essere umorismo con il teatro insolito di Ionesco, il quale racconta l’incomunicabilità tramite la malattia del linguaggio, che sembra quasi soffocato da una folle forma di dislalia, e nell’assurdità del susseguirsi delle scene, il messaggio tanto fondamentale per l’intera umanità che un Vecchio di 95 anni deve diffondere, viene affidato ad un Oratore a causa della difficoltà dell’anziano uomo di esprimersi. Ma l’Oratore è sordo-muto e non riuscirà a farsi intendere da nessuno, comunicando solo rantoli e mugolii, i sintomi che la comunicazione è vittima di una grave epidemia.
Ionesco nelle proprie opere parla infatti dell’oppressione messa in atto dai regimi totalitari del Novecento. E se fino ad ora si è parlato della follia come forma di espressione, come sintomo dei diversi modi d’intendere il reale, subentra il discorso riguardante la follia come delirio di onnipotenza, come forma di distruzione di massa, non solo fisica, ma anche morale, come appunto fa intendere Ionesco sia ne Le sedie, che nel Rinoceronte.
A simboleggiare la follia distruttiva vi è la figura di Hitler, il dittatore nazista che dal 1933 al 1945 ha fatto conoscere non solo all’Europa, ma al mondo intero i crimini più nefandi, come lo sterminio di sei milioni di ebrei e di migliaia di zingari, omosessuali e handicappati, l’uomo che con la propria sete di potere ha contribuito a causare lo scoppio della Seconda guerra mondiale, conflitto che ha visto morire circa 50 milioni di esseri umani, fra soldati e civili.
Ecco come la follia di uno si manifesta e rade al suolo intere città, appoggiata da masse amorfe che si muovono come automi, quelle masse indifferenti che vengono utilizzate ed allo stesso tempo disprezzate da chi instaura questo tipo di potere.
La sete di potere è condannata anche da Seneca, il quale nelle sue tragedie trasferisce il proprio pensiero stoico, denunciando le passioni e accusandole di deformare il corpo e lo spirito degli uomini. Anche la sete di potere è provocata da una passione, l’odio verso il prossimo ed anche verso se stessi, la smisurata ambizione, l’esagerato desiderare un determinato oggetto. Nell’Hercules furens Seneca dimostra come la responsabilità delle azioni più nefande non sia solo da attribuire alle divinità, ma anche alla personalità di chi le compie. Ecco perché Seneca scava nel profondo della psicologia dei suoi personaggi, egli in questo modo insegna la propria moralità, ovvero il rinnegare le passioni, andando oltre.
Ed anche la follia si fa Oltre. Tramite le parole di Zarathustra Nietzsche chiede all’umanità intera di generare una “stella danzante”. Questa è creatrice di vita, perché è luce che si muove caoticamente, dato che è generata dal caos. E cos’altro è la stella se non il simbolo di quella creazione dell’universo nata dal caos dell’esplosione primordiale?
In qualche modo anche la follia è generatrice di luce e vita, tramite la voce del folle si afferma la morte di Dio ed allo stesso tempo la nascita del Superuomo, che comporta l’inizio di un nuovo mondo in cui l’uomo deve passare per tre metamorfosi ed alla terza deve farsi nuovamente bambino, vita primordiale, per poter far giungere i propri messaggi a quegli eletti dal caos dell’Oltre.
Ecco i tanti volti della follia, le tante penne, le tante parole mai dette o gridate al vento, vento pronto a farle germogliare chissà dove, chissà quando. Ecco la follia, che ci tiene per mano, e ci suggerisce sempre un altro modo di pensare alla nostra esistenza, mistero affascinante e terribile allo stesso tempo, ma sempre con noi, immerso nella nostra ombra.

25 marzo 2012

Antonio Tabucchi. La nostalgia dell'irreversibile


Come descrivere ciò che ho provato quando ho letto della morte di Antonio Tabucchi? Sgomento, dolore, rimpianto, tristezza? Non bastano queste parole, se non si è coinvolti non si coglie il significato delle parole usate per descrivere un’emozione. Potrei trascrivere ciò che ho esclamato, ma mancherebbe l’intonazione, e si sa, nella comunicazione i fattori prosodici sono essenziali per far recepire il messaggio con chiarezza.
Io Tabucchi l’ho conosciuto nel 2008. Non dico personalmente, ma nel modo in cui conosci uno scrittore, leggendo le sue parole. Quell’anno, un giorno mi sono svegliata, ho detto “ho voglia di leggere un bel libro”, ho deciso che mi sarei fatta guidare dall’ispirazione, e ho preso in prestito “Sostiene Pereira”. Uno dei libri più belli mai letti. Uno stile formidabile, una storia coinvolgente, emozionante. Ricordo che lo stavo leggendo in aereo durante il viaggio in Andalusia con la mia classe, era la gita del 4° anno di Liceo. Ricordo che ero rimasta incantata da quella ripetizione ad ogni inizio e fine di capitolo dell’espressione “Sostiene Pereira”, ricordo quanto mi fossi affezionata a quel personaggio, così profondo, così umano: parlava con la fotografia della moglie morta, perché gli mancava, perché era strano. Un personaggio coraggioso però, ma non sto qui a spiegarvi il perché, altrimenti vi rovino il finale.
E poi, nel 2010, per l’esame di Letteratura italiana moderna e contemporanea, dovevo scegliere 4 libri da leggere, e tra questi c’era anche il suo “Notturno Indiano”. L’ho comprato, mi piaceva già il modo in cui era stato realizzato. Piccolo, con la copertina blu tipica di “Sellerio Editore Palermo” (se avete letto Camilleri sapete di cosa parlo), leggero. Ma sapevo di avere tra le mani un grande libro. Mi ci ero già imbattuta il 20 aprile del 2009, quando al corso di scrittura creativa il professore Carini ci diede l’incipit di questo romanzo, chiedendoci di continuarlo a nostro piacimento. Chiaramente quello che uscì fuori non era neanche paragonabile a ciò che avrei letto più di un anno dopo. “Notturno Indiano” è un viaggio nelle stanze degli hotel, nelle sale di ospedali, nelle strade dell’ India, ma soprattutto è un viaggio alla ricerca e scoperta di sé, tante immagini essenziali che però rimangono ben fisse nella mente. Quando penso all’India penso automaticamente a questo libro, è come se ci fossi stata anche io. E quando un’opera letteraria ti fa viaggiare sull’ onda delle sue parole, delle sue pagine, non puoi non concludere che quella è una grande opera e che chi l’ha scritta rimarrà nella tua storia personale e in quella culturale. Ma ciò che Tabucchi ha fatto per me non si riduce solo a questo: lo scorso anno all’Auditorium Parco della Musica ho avuto il privilegio di partecipare alla giornata dedicata a lui nell’ambito della manifestazione “Libri Come”. Ad un certo punto  ha parlato della “Nostalgia dell’irreversibile”. Ho riflettuto tanto su questa espressione, su cosa volesse dire per me, ma non sono ancora arrivata ad una conclusione. I grandi scrittori smuovono gli ingranaggi della mente, e lui lo ha fatto.
Antonio Tabucchi, per questi motivi, a poco a poco è diventato importante nella mia vita. So che è stato così anche per altri lettori, e questo è perché Tabucchi era un intellettuale di grande spessore, uno scrittore straordinario. Oggi ci ha lasciato qualcuno a cui la morte non imporrà mai il suo silenzio. 

 

14 marzo 2012

Conosco un momento migliore



Conosco un momento migliore. Sta in un posto migliore, quel posto che trovi in un tardo pomeriggio di febbraio, quando è troppo buio per scoprirlo e allora lo conservi nella memoria, in attesa del momento peggiore, quando serve qualcosa di bello per non cedere del tutto alla negatività.
È quel posto che quando ti si ripresenta agli occhi in una mezza mattinata assolata di marzo ti costringe a posare i passi sui propri san pietrini, a salirne le scale, ad ammirarne gli scorci. E basta poco, basta davvero poco per sorridere e pensare a come sarebbe bello essere lì con la persona che ami, dimenticando per un istante la tristezza.
Ci sono tanti momenti migliori, conservati in una miriade di posti migliori a Roma. Basta perdersi per scovare i paesaggi che risollevano l’animo, che accendono lo sguardo.
In un articolo un po’ banale su Parigi ho letto che la capitale francese è l’unica città che possa ancora definirsi suggestiva. Il tizio si sbagliava, forse lui non si è mai perso a Roma in un mezzogiorno assolato, probabilmente non si è mai lasciato guidare dall’ istinto.