11 aprile 2012

Flussi di coscienza nella matassa ingarbugliata. Il mio Anno Zero



Le ultime note di una canzone accompagnano un pensiero di grandezza pochi istanti prima di iniziare a scrivere. Con la fine della canzone termina la grandezza del pensiero, quest’ultimo rimane, ma rimane piccolo e arrossisce di fronte alla propria megalomania. Non volevo iniziare così, ma avevo bisogno di dipanare questo pensiero dalla mia matassa ingarbugliata.

Sono nata in un Anno Zero e spesso penso che questa cosa mi abbia segnata nel profondo. Sono nata alla fine di un decennio e all’inizio di un altro decennio, in uno spazio bianco, il 1990, un anno zero, come ce ne sono tanti da millenni.
Io ogni tanto penso che il giorno in cui sono nata, cento anni prima, c’erano i miei padri scrittori, artisti, intellettuali in giro, e parlavano, pensavano, scrivevano, dipingevano, vivevano a cento anni di distanza da me. E a me sarebbe bastato nascere solo 100 anni prima per essere una di loro. Mi sarebbe piaciuto scrivere lettere a Montale, usare quel particolare linguaggio in codice necessario per valicare i limiti della censura fascista, avrei voluto intervistare Ungaretti insieme a Pasolini, avrei frequentato Calvino e lavorato per Einaudi insieme a lui. Cosa darei per vedere la faccia della gente la prima volta di fronte alla Merda d’artista di Manzoni, cosa darei per annullare quei cento anni di distanza.
La grandezza di certi anni d’oro la posso toccare solo andando a visitare mostre, musei, la posso sfiorare nelle pagine dei libri, durante le spesso affascinanti lezioni che seguo all’università, nelle strade che calpesto in Italia e nel resto del mondo, ma a volte sento una strana amarezza, un fastidioso senso di disillusione che non vorrei assaporare, mi ritrovo in bocca il gusto di esclusione da un qualcosa che avrei meritato, perché lo apprezzo, se fossi nata in un anno diverso da quell’anno zero che apriva l’ultimo decennio del Novecento.
(Eppure sento che un valore questo mio tempo lo ha).

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