Qui non se ne parla proprio!*
Di Ilaria Pantusa
A quanto pare non
c’era speranza. Non si poteva sfuggire a quella mania, a quell’aberrazione, a
quella che sembrava una vera e propria ossessione. Che gusto ci fosse a Giacomo
Pulvirenti non era chiaro. Lui l’aveva provato una volta e in seguito lo aveva
sempre rifiutato, ché ci si era fatto male, perciò via, esperienza eliminata
col bisturi della glacialità, da evitare come si evita il rischio di una multa
quando sai che l’autovelox è in azione sul tratto di strada che stai
percorrendo.
E proprio in
macchina lui si trovava. Guidava con prudenza, perché una volta, correndo oltre
i cinquanta all’ora, aveva investito un gabbiano che passeggiava ignaro sulle
strisce – parola che sottolineava sempre in modo acuto quando raccontava
l’episodio agli amici –, e da allora era rimasto talmente scioccato che non
poteva mangiare pollo, come se fossero la stessa cosa poi, e gli bastava
sentirne l’odore per immaginare il crick crock delle ossicine del povero
pennuto spalmato lì sul Lungotevere durante una bella giornata di sole.
E il sole c’era
pure quella mattina, mentre guidava diretto al lavoro. Ascoltava la radio, una
di quelle radio che mandano sempre le stesse canzoni ogni tre ore, le hit, i
super successi, quei brani insomma tutti uguali che pensi che un produttore
abbia campionato quei due o tre accordi e li abbia passati sottobanco a tutti
gli altri, come una droga a buon mercato che, per carità, piacevole la prima
volta e forse pure la seconda, ma dopo basta, eh, non se ne può più! Ma lui
continuava ad ascoltarla quella stazione radiofonica: «scusami, Giacomo, ma la
colpa è anche un po’ tua», gli diceva Priscilla quando lo sentiva lamentarsene,
qualche anno prima. Il fantasma di Priscilla gli era comparso al fianco proprio
quando una canzone, disannunciata dalla speaker super entusiasta del super
successo, portava nel titolo quella parola che lui proprio non sopportava più.
E il bello è che, come i suoni, quelle canzoni nel titolo avevano più o meno
tutte le stesse parole. E allora, Giacomo, pensava immaginando di guardarsi dal
sedile del passeggero, forse davvero è un po’ colpa tua.
Arrivato al
lavoro, quel mattino doveva selezionare le nuove leve per la sua azienda. Era
nervoso. La signorina Allevi, la segretaria, lo aveva capito non appena lo
aveva visto entrare: col piede sinistro. Meticoloso, Giacomo, e pure
superstizioso, stavolta non ci aveva fatto caso. La testa non ce l’ha ai
colloqui, deve essere per quell’altra “cosa”, aveva pensato la signorina
Allevi. Lei sapeva del suo problema con le parole, anzi, con quella parola in
particolare, cosicché non osava neanche pensarla fra sé e sé. Lui era stato
molto chiaro: «quella parola qui non si usa, se lo fai ti licenzio», e le aveva
mostrato su un foglio quale fosse. Poi lo aveva bruciato davanti ai suoi occhi,
ma lei era rimasta impassibile. Donna di una certa età, doveva pur dare da
mangiare ai gatti del quartiere, certe stranezze ormai non la spaventavano più,
e poi sapeva che da nessun’altra parte avrebbero mai richiesto espressamente
che la segretaria avesse un’età compresa fra i cinquanta e i settant’anni.
«Signor
Pulvirenti, i candidati sono arrivati, quando è pronto, cominciamo». Con un
cenno Giacomo le aveva detto di far entrare il primo. Questo, tutto sicuro di
sé, mise piede in ufficio, si presentò ed esordì dicendo: «So con quanto
amore…». Giacomo non lo lasciò neanche finire, lo fulminò con lo sguardo, come
una furia andò verso la porta, ma non fece uscire il giovane. Fu lui ad
andarsene. Dove, non si sa. Ancora lo cercano dalle parti del Tevere.
*Mi ero ripromessa
di non pubblicare nessun racconto su questo blog, ma questa è la seconda volta
che trasgredisco le mie stesse regole. Sono tante le scuse che invento con me
stessa e gli altri per giustificare questa scelta, la verità è che quando
scrivo mi metto a nudo e io ho una paura folle di mostrarmi “nuda” agli altri.
In questo racconto, scritto una sera di dicembre per un concorso letterario (Laventicinquesimaora), ho volutamente usato la terza persona per provare, almeno scrivendo, a prendere le distanze da me stessa. Ma soprattutto mi sono divertita a giocare con le sorti di un personaggio che tutto sommato non so ancora se mi sta antipatico o meno.
In questo racconto, scritto una sera di dicembre per un concorso letterario (Laventicinquesimaora), ho volutamente usato la terza persona per provare, almeno scrivendo, a prendere le distanze da me stessa. Ma soprattutto mi sono divertita a giocare con le sorti di un personaggio che tutto sommato non so ancora se mi sta antipatico o meno.
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