11 aprile 2018

"Qui non se ne parla proprio!" - Racconto breve





Qui non se ne parla proprio!*

Di Ilaria Pantusa



A quanto pare non c’era speranza. Non si poteva sfuggire a quella mania, a quell’aberrazione, a quella che sembrava una vera e propria ossessione. Che gusto ci fosse a Giacomo Pulvirenti non era chiaro. Lui l’aveva provato una volta e in seguito lo aveva sempre rifiutato, ché ci si era fatto male, perciò via, esperienza eliminata col bisturi della glacialità, da evitare come si evita il rischio di una multa quando sai che l’autovelox è in azione sul tratto di strada che stai percorrendo.

E proprio in macchina lui si trovava. Guidava con prudenza, perché una volta, correndo oltre i cinquanta all’ora, aveva investito un gabbiano che passeggiava ignaro sulle strisce – parola che sottolineava sempre in modo acuto quando raccontava l’episodio agli amici –, e da allora era rimasto talmente scioccato che non poteva mangiare pollo, come se fossero la stessa cosa poi, e gli bastava sentirne l’odore per immaginare il crick crock delle ossicine del povero pennuto spalmato lì sul Lungotevere durante una bella giornata di sole.

E il sole c’era pure quella mattina, mentre guidava diretto al lavoro. Ascoltava la radio, una di quelle radio che mandano sempre le stesse canzoni ogni tre ore, le hit, i super successi, quei brani insomma tutti uguali che pensi che un produttore abbia campionato quei due o tre accordi e li abbia passati sottobanco a tutti gli altri, come una droga a buon mercato che, per carità, piacevole la prima volta e forse pure la seconda, ma dopo basta, eh, non se ne può più! Ma lui continuava ad ascoltarla quella stazione radiofonica: «scusami, Giacomo, ma la colpa è anche un po’ tua», gli diceva Priscilla quando lo sentiva lamentarsene, qualche anno prima. Il fantasma di Priscilla gli era comparso al fianco proprio quando una canzone, disannunciata dalla speaker super entusiasta del super successo, portava nel titolo quella parola che lui proprio non sopportava più. E il bello è che, come i suoni, quelle canzoni nel titolo avevano più o meno tutte le stesse parole. E allora, Giacomo, pensava immaginando di guardarsi dal sedile del passeggero, forse davvero è un po’ colpa tua.

Arrivato al lavoro, quel mattino doveva selezionare le nuove leve per la sua azienda. Era nervoso. La signorina Allevi, la segretaria, lo aveva capito non appena lo aveva visto entrare: col piede sinistro. Meticoloso, Giacomo, e pure superstizioso, stavolta non ci aveva fatto caso. La testa non ce l’ha ai colloqui, deve essere per quell’altra “cosa”, aveva pensato la signorina Allevi. Lei sapeva del suo problema con le parole, anzi, con quella parola in particolare, cosicché non osava neanche pensarla fra sé e sé. Lui era stato molto chiaro: «quella parola qui non si usa, se lo fai ti licenzio», e le aveva mostrato su un foglio quale fosse. Poi lo aveva bruciato davanti ai suoi occhi, ma lei era rimasta impassibile. Donna di una certa età, doveva pur dare da mangiare ai gatti del quartiere, certe stranezze ormai non la spaventavano più, e poi sapeva che da nessun’altra parte avrebbero mai richiesto espressamente che la segretaria avesse un’età compresa fra i cinquanta e i settant’anni.

«Signor Pulvirenti, i candidati sono arrivati, quando è pronto, cominciamo». Con un cenno Giacomo le aveva detto di far entrare il primo. Questo, tutto sicuro di sé, mise piede in ufficio, si presentò ed esordì dicendo: «So con quanto amore…». Giacomo non lo lasciò neanche finire, lo fulminò con lo sguardo, come una furia andò verso la porta, ma non fece uscire il giovane. Fu lui ad andarsene. Dove, non si sa. Ancora lo cercano dalle parti del Tevere.

*Mi ero ripromessa di non pubblicare nessun racconto su questo blog, ma questa è la seconda volta che trasgredisco le mie stesse regole. Sono tante le scuse che invento con me stessa e gli altri per giustificare questa scelta, la verità è che quando scrivo mi metto a nudo e io ho una paura folle di mostrarmi “nuda” agli altri.
In questo racconto, scritto una sera di dicembre per un concorso letterario (Laventicinquesimaora), ho volutamente usato la terza persona per provare, almeno scrivendo, a prendere le distanze da me stessa. Ma soprattutto mi sono divertita a giocare con le sorti di un personaggio che tutto sommato non so ancora se mi sta antipatico o meno.
 



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