Le ultime note di una canzone
accompagnano un pensiero di grandezza pochi istanti prima di iniziare a
scrivere. Con la fine della canzone termina la grandezza del pensiero, quest’ultimo
rimane, ma rimane piccolo e arrossisce di fronte alla propria megalomania. Non
volevo iniziare così, ma avevo bisogno di dipanare questo pensiero dalla mia
matassa ingarbugliata.
Sono nata in un
Anno Zero e spesso penso che questa cosa mi abbia segnata nel profondo.
Sono nata alla fine di un decennio e all’inizio di un altro decennio, in uno
spazio bianco, il 1990, un anno zero, come ce ne sono tanti da millenni.
Io ogni tanto penso che il giorno
in cui sono nata, cento anni prima, c’erano i miei padri scrittori, artisti,
intellettuali in giro, e parlavano, pensavano, scrivevano, dipingevano, vivevano a cento
anni di distanza da me. E a me sarebbe bastato nascere solo 100 anni prima per
essere una di loro. Mi sarebbe piaciuto scrivere lettere a Montale, usare quel
particolare linguaggio in codice necessario per valicare i limiti della censura
fascista, avrei voluto intervistare Ungaretti insieme a Pasolini, avrei frequentato Calvino e lavorato per Einaudi insieme a lui. Cosa darei per vedere
la faccia della gente la prima volta di fronte alla Merda d’artista di Manzoni,
cosa darei per annullare quei cento anni di distanza.
La grandezza di certi anni d’oro
la posso toccare solo andando a visitare mostre, musei, la posso sfiorare nelle
pagine dei libri, durante le spesso affascinanti lezioni che seguo all’università,
nelle strade che calpesto in Italia e nel resto del mondo, ma a volte sento una
strana amarezza, un fastidioso senso di disillusione che non vorrei assaporare,
mi ritrovo in bocca il gusto di esclusione da un qualcosa che avrei meritato,
perché lo apprezzo, se fossi nata in un anno diverso da quell’anno zero che
apriva l’ultimo decennio del Novecento.
(Eppure sento che un valore
questo mio tempo lo ha).
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