12 novembre 2009

Scrivere per viaggiare



“I libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. Viaggiava su antichi velieri con J. Conrad. Andava in Africa con E. Hemingway e in India con Kipling. Girava il mondo restando seduta nella sua stanza, in un villaggio inglese”.
Questo è “viaggiare” per la Matilde di Roal Dahl, il quale a sua volta, con i suoi romanzi per ragazzi, ha creato perfetti habitat per far maturare la fantasia dei suoi tanti, piccoli lettori.
Il viaggio è la meta dello scrittore. Vagare col pensiero, scoprire l’ “oltre” che tanto spaventa l’uomo mediocre, è il suo obiettivo, esser raggiunto dal fruitore della propria opera è la sua realizzazione.
Certo è che Kipling ed Hemingway si son sentiti realizzati se, come da Matilde, son stati raggiunti anche da altri lettori pronti a vagare fra le loro parole.
Ma cosa vuol dire essere pronti a partire?
Come per l’Ulisse di Dante, è rinunciare ad un figlio, ad un padre, ad una donna per “divenir del mondo esperto”? Anche. Essere pronti a partire è spogliarsi di se stessi e tentare in tutti i modi di vestire i panni del mondo.
Il lettore sa che ogni  libro è una piccola lezione di vita, il più grande specchio del suo animo. Leggere risveglia in lui, come nella Matilde di Dahl, la possibilità di inventare immagini, sapori, odori, di essere travolto da irresistibili sinestesie.
E se per il lettore il viaggio dei sensi è una tensione verso l’infinito che solo pagine e pagine di parole permettono di raggiungere, per lo scrittore, l’atto di scrivere è un qualcosa che va oltre il proprio “io”.
Come afferma Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, i personaggi del suo romanzo sono le sue stesse possibilità che non si sono mai realizzate. Egli vuole bene ad ognuno di loro, ma allo stesso modo lo spaventano, perché ciascuno di essi ha superato un confine che egli ha solo aggirato, oltre il quale finisce il proprio io, e che costituisce proprio ciò che lo attrae.
Scrivere è quindi per Kundera un oltrepassare i limiti del proprio io, viaggiando sui binari del proprio estro. E’ simile a ciò che succede all’uomo che si eleva dalla condizione di mediocrità andando verso l’oltre, interrogandosi quindi sul senso della vita e di ciò che lo circonda. Infatti, come ancora afferma Kundera, “un romanzo è un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato”.
Viaggiare col pensiero e con le parole a volte è anche un voler sfuggire a questa gabbia. Se il lettore, mentre si immerge in uno scritto, si inebria di tutte le sensazioni che quello può regalargli, lo scrittore, durante il processo creativo, può evadere. Lo faceva Verlaine quando, chiuso in prigione, guardava il cielo blu segnato dalle sbarre della sua obbligatoria dimora e parlava dei rumori dei luoghi in cui era la vita nella poesia “Le ciel est, par-dessus le toit”
.
Nelle opere di Baudelaire il viaggio è visto come evasione nel mondo dei sensi e in quello incontaminato e puro dell’immaginazione. Nauseato dallo choc di cui fa esperienza nella Parigi degli albori della modernità, vuole evadere nella terra della donna da lui adorata, là dove “tutto è ordine e beltà, lusso, calma e voluttà”. “Invito al viaggio” è un invito ad entrare in un mondo abitato dai sensi, dalla lucentezza dei piccoli particolari, in un mondo di “giacinto e d’oro”.
Capita che l’evasione si nasconda nei piccoli particolari. Pirandello è in grado di aprire i propri occhi, quelli dei suoi personaggi e, simultaneamente, quelli del lettore, sulle sottigliezze della vita.
Al Belluca di “Il treno ha fischiato” basta correr col pensiero dietro ad un treno sentito fischiare in una notte come le altre, per vagare fra oceani e foreste, montagne e città note o ignote, riuscendo ad evadere dal caos della quotidianità, quella stessa che tanto ossessiona l’autore siciliano, mania che lo porta ad estrapolare dal suo genio pensieri illuminanti, pronti a rimbalzare addosso a chiunque si senta pronto a viaggiare con essi.
Scrivere per viaggiare, leggere per sfuggire. Vagare. Tutto questo è viaggiare.
Si viaggia per se stessi, verso se stessi, si sfugge da se stessi e dagli altri, da ogni “oltre” e da ogni ramo secco del nostro passato che non si è trasformato in futuro. Si vaga col pensiero per raccontare e per rimanere, per restare gli uni accanto agli altri, per fare “un sogno di mare” e “seguire questo migrare”, citando Fabrizio De Andrè, per tenere saldo ogni drappo di mondo che si è visto realmente o solo dal proprio personale “villaggio inglese”.

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